Cavolo cappuccio di Vìnigo di Cadore un prodotto agroalimentare tradizionale italiano (P.A.T.) della Regione Veneto tipico della provincia di Belluno.
Categoria
Prodotti vegetali allo stato naturale o trasformati
Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali
Cavolo cappuccio di Vìnigo di Cadore
Territorio interessato alla produzione
Il paese di Vìnigo di Cadore nel comune di Vodo di Cadore in provincia di Belluno.
La coltivazione del vero Cavolo Cappuccio tradizionale di Vìnigo è concentrata in una bella conca, nella
frazione di Vìnigo a 1025 m s.l.m. su una superficie di circa 6000 m², suddivisa in piccoli appezzamenti dove
molte famiglie si dedicano a tale attività. Tuttavia esistono altre piccole aree distribuite attorno al paese.
Descrizione sintetica del prodotto
La pianta è caratterizzata dalla presenza del gambo “più interno”, dalla forma della testa un po’ appiattita, da
una buona grandezza e da un peso medio variabile al raccolto compreso tra i 2,5-4,5 kg, in certe annate con
adeguate precipitazioni si possono ottenere delle teste del peso straordinario di 6 kg.
Il cavolo cappuccio di Vìnigo (“al capùze”) presenta le foglie esterne di un colore verde medio brillante e
bianco all’interno; possiede un sapore particolare, dolciastro, è croccante e si conserva a lungo. Può essere
consumato fresco a crudo (in insalata) o stufato (“capùze scautrìde”) e, in parte utilizzato per la produzione di
crauti (“i capùze gàrbe”).
Descrizione delle metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura
La coltivazione inizia con la semina in pieno campo a partire dal 25 aprile, S. Marco a seguire il trapianto,
con la messa a dimora delle piantine il 24 giugno, giorno di San Giovanni Battista, patrono di Vìnigo.
La raccolta avviene all’inizio di novembre e spesso coincide con il periodo dei Santi, dopo le prime brinate
autunnali, che favoriscono la chiusura delle teste e ne aumentano la croccantezza.
Tale operazione, come tutte le altre, viene realizzata a mano.
I cavoli cappucci vengono conservati per due o più mesi in luoghi freschi, alcuni, con parte del gambo,
vengono appesi, altri sistemati in sacchi di plastica nera.
Alla raccolta, ogni singola famiglia, lascia sul campo alcune piante, le migliori, perché destinate alla
produzione di seme.
Indicare materiali ed attrezzature specifiche utilizzati per la preparazione e il condizionamento del
prodotto
La raccolta avviene all’inizio di novembre e spesso coincide con il periodo dei santi, dopo le prime brinate
autunnali, che favoriscono la chiusura delle teste e ne aumentando la croccantezza
Tale operazione viene realizzata a mano, e consiste nell’eseguire un taglio, con un attrezzo a lama larga
(coltello, roncola, seghetto, ecc.), subito al di sotto della “testa”, per asportare un certo numero di foglie
esterne (scrematura o coronatura).
Successivamente i Cavoli vengono puliti togliendo le foglie esterne rovinate dagli agenti atmosferici ed
eliminando la parte centrale più dura.
Descrizione dei locali di lavorazione, conservazione e stagionatura.
I Vìnighesi, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, raccolgono i cavoli cappucci. Ogni famiglia destina
una parte delle “teste”, ad esempio quelle più piccole, per la preparazione dei “capùze gàrbe”, una parte
viene venduta e una parte conservata in luoghi freschi..
Indicare gli elementi che comprovino che le metodiche siano state praticate in maniera omogenea e
secondo regole tradizionali per un periodo non inferiore ai 25 anni
La provincia di Belluno è un territorio adatto alla coltivazione e alla successiva preparazione del cavolo
cappuccio. Le testimonianze più antiche sono le note del Canonico Giovanbattista Barpo che, nel suo trattato
intitolato “Le delizie e i frutti dell’Agricoltura e della Villa” (1632), a proposito dei cavoli cappucci, così
scriveva: «Alcuni li ripongono in cantina con della terra al piede, e servono per loro uso quotidiano; altri li
tagliano minutissimi con un coltello ben affilato e li calcano in un mastello ben pulito, alti tre dita, con una
mano di sale; poi mettono un’altra mano di cappucci e un’altra di sale e così via, fin che il contenitore è ben
pieno; poi li coprono con una tavola zavorrata con qualche peso di sopra e, d’inverno, se li mangiano in
minestra con del buon brodo di vaccina o di porco».
Nel Possidente Bellunese, Antonio Maresio Bazolle (1887), invece scriveva:“parlo anche dei cappucci
perché se ne impiantano anche di questi nei campi,……Queste piante vengono seminate negli orti, ed i
contadini che vogliono metterne nei loro campi comprano le piante già grandicelle dalle ortolane, e poscia le
impiantano nei campi di sorgo turco, frammezzo a questo……..I cappucci piantati nei campi non acquistano
mai un bello sviluppo né danno un buon raccolto perché i nostri campi sono troppo magri per essi, e perché
il sorgo turco facendo ombra toglie loro quel sole che loro sarebbe necessario. Non corrispondono al
desiderio del padrone che se piantati in orti grassi, in buona plaga al sole, e senza ombre. I cappucci bene
riusciti sono poi mangiati sul finire dell’autunno ed ai primi d’inverno…..Tutto sommato danno un
contingente assai limitato per la cucina, ed un meschinissimo ricavato quale oggetto di vendita, perché
sono poi qui condotti in vendita a grandi carri i cappucci, sia dall’Agordino, come dalla Bassa”.
“…… Allora come oggi il cavolo cappuccio era seminato nell’orto verso san Marco e, intorno a san
Giovanni, le piantine erano interrate a debita distanza l’una dall’altra soprattutto nei campi di Piàs
appositamente preparati e bagnati d’acqua; si raccoglievano infine ai primi di novembre possibilmente dopo
due-tre brinate. Le teste erano poi in parte vendute, in parte subito consumate oppure preparate per fare i
crauti (“i capùze gàrbe”). In questo caso i “capùze” erano tagliati sottilmente col “sondèi” e poi messi
ben pressati con il sale in un contenitore di legno (“al mastèl”). Sul coperchio di quest’ultimo si poneva
infine un peso affinché essi restassero quindi ben schiacciati. Dopo un mese o due il prodotto era pronto per … le
tavole! (allegato 1)
Tra tutti i cappucci raccolti se ne tenevano da parte un paio, estratti quindi interi dal terreno, per poter fare il
seme. In questo caso essi erano dunque posti in un secchio con un po’ di terra, portati in cantina, innaffiati ogni
tanto e poi privati, nel mese di gennaio, della testa. Il “tronco” (“al verdòto”) rimasto era dunque piantato
nell’orto in primavera affinché potesse produrre semi per l’anno successivo.” (tratto dal testo di M.
Marchioni e T. Pivirotto “Vìnigo nel ‘900”)
La coltivazione del vero Cavolo Cappuccio tradizionale di Vìnigo è concentrata in una bella conca, nella
frazione di Vìnigo a 1025 m s.l.m. su una superficie di circa 6000 m², suddivisa in piccoli appezzamenti dove
molte famiglie si dedicano a tale attività.