Oco in onto dei Berici

L’Oco in onto dei berici è un prodotto agroalimentare tradizionale P.A.T. della regione Veneto tipico della provincia di Vicenza

Categoria
Carni (e frattaglie) fresche e loro preparazione

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali
Oco in onto dei Berici

Territorio interessato alla produzione
La conservazione della carne dell’oca nel grasso fuso è tipica nei Comuni del Basso Vicentino e si differenzia da
zona a zona. Ogni casa contadina della zona in passato vedeva la presenza di un gruppetto di oche domestiche
e tale conservazione permetteva di dilazionare le risorse alimentari nel tempo.

Descrizione sintetica del prodotto
Oco in onto dei berici è un’oca domestica, sezionata secondo le abitudini di ogni famiglia.
Grasso dell’oca fuso – Il grasso si può ricavare, in fase di sezionamento dell’animale, dalla zona sotto pelle
(ed in certi punti anche internamente), oppure facendolo colare attraverso una cottura della carne.
Lardo fuso (ònto, colà) del maiale, aggiunto se il grasso dell’oca non è sufficiente (se l’oca non è stata
abbastanza ingrassata).
Sale grosso
Olio d’oliva – A volte utilizzato sempre se il grasso dell’oca non si dimostra sufficiente per la modalità di
conservazione.
Olio di semi di vinacciolo per isolare il contenuto dei recipienti.

Descrizione delle metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura
Oltre alle carni di maiale, molti in passato conservavano, certamente in misura minore, anche la carne de òco,
l’oca domestica, un animale da cortile frequentemente presente nelle case di campagna. Gli òchi, che
venivano solitamente allevati in gruppetti poco numerosi (da tre-quattro a non molti di più) anche da chi
aveva soltanto l’aia dove tenerli, o pochissima terra, e che venivano talora portati a pascolare lungo le strade,
erano nel Basso Vicentino particolarmente apprezzati per il loro grasso. Questo veniva ottenuto anche grazie
ad un’alimentazione forzata. Era infatti pratica comune incoconàrli, imboccarli cioè con forza (utilizzando un
imbuto e un manico di scopa per spingere il cibo in gola).
Gli òchi vengono uccisi, di solito tra la fine di Novembre e i primi di Dicembre (De Santa Caterina ciàpa l’òco
par la schìna), momento in cui hanno raggiunto il punto massimo di ingrassamento e hanno fatto il piumaggio
invernale. Spezzato l’occipite, vengono spiumate (il residuo di piumaggio viene fiammeggiato ovvero passato
sul fuoco velocemente per essere tolto meglio).
Quindi, per risolvere il problema della conservazione (un òco pesa fino a 10 kg), si mettono in ònto. Coesistono
nel Basso Vicentino due modalità di conservazione della carne dell’oca nel suo grasso.
C’è chi, dopo aver tolto le interiora e ripulito l’òco, ne leva il grasso, taglia il volatile a quarti, senza ferire le
articolazioni, e li pone sotto sale per 8-10 giorni su ripiani di legno inclinati per far scorrere il liquido. Si
seziona abitualmente l’oca anche in pezzi più piccoli (i quarti necessitano de pì fògo e i gà mànco gùsto),
bastano quindi solo 4-5 giorni di salatura. Il sale residuo viene tolto con un canovaccio e si cerca di eliminare
il liquido che la carne ha espulso durante la salatura. Il resto del corpone dell’oca, rimasto dopo l’ottenimento
dei quarti, viene solitamente mangiato, disossato, lessandolo (nel giro di pochi giorni dall’uccisione dell’oca).
Il grasso dell’oca è presente sotto pelle ed internamente, in misura maggiore sulla pancia, nella zona vicino al
fegato, e sul collo. Si fonde, evitando le parti sanguinolente, in una pentola a fuoco lento (affinché non si
abbrustolisca) circa un’ora. Viene quindi filtrato: come lo strutto lascia sul colabrodo i caratteristici ciccioli,
zìzoli, frammenti cotti di tessuto carnoso che sostengono la parte grassa, croccanti e particolarmente gustosi
ed utilizzati in numerosissime ricette. Quindi ancora tiepido, prima che rapprenda, si versa nelle olle di
terracotta o nei vasi di vetro dove sono stati riposti i quarti d’oca; è necessario che l’operazione venga
eseguita gradatamente per far penetrare in tutti gli interstizi il grasso e, quindi, per non creare vuoti d’aria;                                                      se il grasso non è sufficiente si può aggiungere olio d’oliva. I pezzi di carne vengono riposti a strati, pelle contro
carne, e pressati, prima di versare il grasso, per sfruttare tutto lo spazio possibile, non essendo molto il grasso
d’oca disponibile. Prima di essere aggiustati nei recipienti, possono essere bagnati con dell’olio di vinacciolo
per impedire che si attacchino fra di loro e per evitare l’aderenza del grasso fuso ad esse. Il contenuto dei
recipienti, raffreddato, può venire isolato con un leggero strato sempre di olio di vinacciolo. Quando il loro
grasso non basta a coprirli si può aggiungere dello strutto. Le olle di terracotta sono chiuse con della carta
oleata serrata da uno spago e i vasi di vetro vengono avvolti in carta da pane o tela scura.
Le carni si possono consumare dopo circa due mesi, come stanno o fritte nel loro grasso con rosmarino e salvia,
oppure anche cotte entro la tipica minestra di rìsi e bìsi.

Altri invece, dopo aver messo i pezzi tagliati dell’òco sotto sale per una notte, li ripongono in una pentola con
poca acqua e li lasciano sul fuoco finché il grasso si scioglie e la carne si lascia pungere da una forchetta.
Quando le carni si sono raffreddate, si sgocciolano e si mettono nella olla di terracotta coperte dal loro grasso.
Conservata secondo questa variante, l’oca è molto spesso mangiata lessa, (il tempo di cottura, essendo
state le carni precotte, è inferiore).
I contenitori sono conservati in cantina, luogo fresco e in penombra (il grasso notoriamente irrancidisce alla
luce), all’interno di una rete protettiva, appese al soffitto o riposte su ripiani o graticci alti.
La carne è lasciata a riposo per almeno due mesi, risulta particolarmente saporita e duratura.
Tipica è la ricetta rìsi, bìsi e òca: si tratta di una variante, caratteristica del Basso Vicentino, della minestra di rìsi
e bìsi, resa più appetibile dalla presenza del brodo e dei pezzettini di carne d’oca. Dapprima si
cuoce in brodo un pezzo d’oca per circa un’ora e mezza (il tempo varia a seconda che, prima di essere riposti
sotto ònto, i quarti siano stati cotti per ricavarne il grasso o che siano stati conservati crudi). Poi si prepara un
soffritto di olio, lardo o pancetta battuti, cipolla affettata e prezzemolo. Quando il soffritto è rosolato vi si
insaporiscono i piselli, che termineranno di cuocere nel brodo aggiunti per fare la minestra. Allorché i piselli
sono cotti si mette il riso e i pezzetti di carne; durante la cottura del riso si aggiunge gradatamente altro brodo
dell’oca per mantenere il riso “all’onda”. I piselli erano una volta quelli esclusivamente di Lumignano, dolci,
con una buccia particolarmente tenera.
Si tratta chiaramente di una ricetta tipicamente primaverile: di qui la necessità di conservare almeno una parte
dell’oca, dal 25 Novembre, fino alla stagione. Tradizionalmente era un piatto che si mangiava il 25 Aprile, il
giorno di San Marco. A Pojana suonava la campana del castello di San Zeno e partiva la grande rogazione,
processione di supplica accompagnata da litanie: gli uomini precedentemente avevano piantato piccole croci
bianche all’inizio di ogni filare e ad ogni crocicchio (luogo di passaggio degli spiriti) dove il prete si fermava
a benedire ai quattro punti cardinali. Tornati a casa immancabilmente si consumava la minestra di rìsi, bìsi e
òco in onto dei berici, secondo un’usanza comune ai Dogi di Venezia, questi infatti nello stesso giorno mangiavano la
medesima pietanza.
Nel 1962 Eugenio Candiago citava una ricetta altrettanto tipica nel suo “Itinerari Gatronomici Vicentini”: i bìgoli
con l’òco in ònto del Basso Vicentino.

Indicare materiali ed attrezzature specifiche utilizzati per la preparazione e il condizionamento del
prodotto
Calièra, pentola di rame
Coltelli
Spago, gavetta
Carta da pane
Bròndo, pentola di rame con l’interno in bronzo munita di tre piedini, per uso quotidiano strettamente domestico.
Moscaròla rete a maglia fitta con la quale a volte si proteggevano gli insaccati ed altri alimenti conservati in
cantina.
Olle di terracotta (pegnàta de tèra), recipienti comuni e poveri, verniciati all’interno, dotati di ampia bocca
(affinché possa entrare una mano), di un collo svasato e di uno o due manici. Isolano bene dalle condizioni
esterne e dalla luce.
Vasi di vetro (bossòni de vèro) vantaggiosi per il loro materiale igienico e per la buona chiusura, dato che il
bordo esterno del coperchio è smerigliato, come è smerigliato il bordo interno del collo su cui esso poggia. Di
solito si preferiscono scuriti, nonostante siano avvolti in carta da pane o in della tela, per evitare la
penetrazione della luce.

Descrizione dei locali di lavorazione, conservazione e stagionatura
La lavorazione dell’ òco in onto dei berici si fa solitamente in cucina. Oggi in locali polifunzionali di macellazione
autorizzati all’interno dei massimali previsti (aziende agrituristiche). L’òco in ònto si conserva in cantina,                                                    luogo fresco, umido e in penombra (alcuni sostengono che la cantina debba essere profonda almeno 13 piedi perché                                  possa garantire un fresco costante).

Indicare gli elementi che comprovino che le metodiche siano state praticate in maniera omogenea e
secondo regole tradizionali per un periodo non inferiore ai 25 anni
“Anche la più modesta, la meno provvista delle cucine vicentine, ha le sue “riserve”in ogni occasione, perché
non una famiglia rimane, d’inverno, senza l’oco onto. La carne si conserva perfettamente per tutti i mesi
dell’inverno e fornisce la mensa nei giorni in cui non si abbia altro da portare in tavola. Ottima è la compagnia
dell’oco onto che si cuoce in svariate maniere, con una buona minestra di risi e bisi, specie se i piselli sono
quelli di Lumignano” da “Itinerari Gastronomici Vicentini”, Candiago.
Le numerose testimonianze sull’oco in onto dei berici comprovano la tipicità e l’età di questa modalità di
conservazione: si tratta di una pratica diffusissima nel territorio del Basso Vicentino, che esiste almeno da
quattro generazioni.